
Siamo in guerra. Dobbiamo combatterla senza rinunciare alle nostre libertà
di ALDO DI LELLO
Siamo in guerra. L’Europa è in guerra. Non ci volevano i massacri di Parigi, venerdì sera, per capirlo, ma è certo che la percezione della bufera che si sta abbattendo sul nostro continente, proprio da venerdì, è traumaticamente cambiata. S’è fatta molto più intensa e drammatica. Di questo cambiamento di percezione c’è chiara traccia nelle prime dichiarazioni politiche dopo le stragi, come pure negli editoriali e nella comunicazione dei media. Il presidente Hollande ha parlato di “atto di guerra” e di “attacco senza precedenti”. Sono stati in molti a scrivere, a caldo, che un clima di paura e insicurezza simile Parigi non lo viveva dal tempo dell’occupazione nazista.
Con quest’ultimo, inaudito attacco alla Francia il terrorismo jihadista operante in Europa ha compiuto un pauroso salto di qualità militare e politica. Ora riesce a coordinare 7 attacchi simultanei in altrettanti punti di una grande capitale europea. Impiega kamikaze come se fosse a Baghdad. Spara nel mucchio. “Punisce” la Francia per la sua partecipazione ai raid anti-Isis in Siria e lancia un messaggio minaccioso a tutta l’Europa: guai a voi se intervenite. Poco importa se l’attacco sia stato pianificato dal “Califfo” oppure se tutto sia partito all’interno delle banlieue parigine. La particolarità della guerra globale scatenata dal nuovo jihadismo sta nell’autonomia dei gruppi che operano con il franchising dell’Is (questa modalità terroristica è un’invenzione di Al Qaeda). Di sicuro c’è che l’attacco contro Parigi presuppone una consistente e ramificata organizzazione internazionale, come attesta la nazionalità siriana di uno dei terroristi rimasti uccisi. In ogni caso, è evidente che stiamo assistendo, in queste settimane, a una massiccia controffensiva del jihadismo sul piano internazionale, come dimostrerebbe anche la quasi certa natura terroristica dello scoppio che ha distrutto l’aereo russo sul Sinai.
Sotto accusa sono ora i servizi di sicurezza francesi. Le polemiche sono già scoppiate quando si è saputo che l’altro terrorista rimasto ucciso era di nazionalità francese e che era ben noto ai servizi. Nei prossimi giorni sapremo se c’è stata sottovalutazione o incapacità nella prevenzione dell’atto terroristico . Non dobbiamo però dimenticare che decine di attentati sono stati sventati nel solo 2015, non solo in Francia, ma nel resto d’Europa, Italia compresa. La protezione dei servizi, per quanto efficiente e attenta, non può essere al cento per cento.
Né del resto dobbiamo pensare che la guerra globale in atto si possa combattere solo con le armi dell’intelligence. C’è anche un livello strategico e politico, che richiama la necessità di una iniziativa forte dell’Europa per cancellare l’Isis sul piano militare. C’è inoltre un livello “piscologico” e culturale, che non è meno importante dei due livelli precedenti, ancorché sia meno appariscente e più indiretto. Si tratta in sostanza di capire realmente e di interiorizzare il fatto che l’Europa, che la nostra società sono in guerra, una guerra che non abbiamo né voluto né cercato (con buona pace di quanto hanno affermato, subito dopo i fatti di Parigi, i pacifisti ideologici come Gino Strada), ma una guerra nella quale siamo dentro, ci piaccia o non ci piaccia.
Il primo atto è “abituarci” all’idea che siamo in guerra, imparare a “convivere” con questa idea. Il che non vuol dire cambiare le nostre abitudini, come vorrebbero i jihadisti. Non dobbiamo “blindarci” in casa, come ha raccomandato il politologo francese Marc Lazar in una bella intervista sul Corriere della Sera. Abituarci alla guerra, vuole dire innanzi tutto vincere il nemico più insidioso: la paura. In questo senso va ascoltato l’appello di Papa Francesco nella prospettiva dell’imminente Giubileo: “Non facciamoci dominare dalla paura”.
La paura ci porterebbe a rinunciare a porzioni rilevanti della nostra libertà e a scatenare lo “scontro delle civiltà” all’interno delle nostre società, dove vivono milioni di musulmani (solo in Francia ce ne sono 6 milioni). Sarebbe catastrofico e assegnerebbe la vittoria ai jihadisti. Certo, anche i rappresentanti delle comunità islamiche devono fare la loro parte, devono uscire da ogni ambiguità, devono realmente operare per isolare i focolai del fanatismo e cooperare con le autorità per denunciare le situazioni sospette.
Altra strada non c’è. Se vince la paura, se vince il sospetto, se vince il fanatismo, perdiamo tutti.